Scrivere. Fissare i pensieri in parola, modellare le idee per poterle riconoscere e renderle riconoscibili agli altri. Scrivere è un modo per conoscersi e per darsi: un gioco di relazione e introspezione che l’essere umano non ha smesso di praticare da quando l’evoluzione glielo ha insegnato. Esiste però una tensione congenita in noi che precede la scrittura e anche il linguaggio, quella che ci porta a muoverci, migrare, cercare altrove condizioni migliori di vita. Fulvio Pezzarossa è docente di sociologia della letteratura all’Università di Bologna e la sua prospettiva di studio mette insieme le due cose: scrivere e migrare. Ed è la scrittura – spiega – a metterci in contatto con la realtà delle migrazioni e con le sue contraddizioni. Pezzarossa dirige la rivista Scritture Migranti e della letteratura delle migrazioni è tra i pionieri nel mondo accademico. Raggiunto al telefono, ci ha concesso una lunga chiacchierata di cui qui riportiamo una sintesi.
Professore, da quando la letteratura ha iniziato a occuparsi di migrazioni?
Partiamo col dire che la mobilità umana non è mai cessata almeno dai tempi di Neanderthal. Noi ci vantiamo dell’antichità romana, ma se ci pensiamo bene sappiamo di averla ereditata da mediorientali che sono arrivati sulle coste del Lazio dalle rovine di Troia. Le narrazioni e le stesse lingue portano le tracce di questi movimenti. La letteratura italiana non si è occupata molto del tema: Pascoli, De Amicis e pochi altri, nonostante il fatto che negli ultimi secoli abbiamo avuto milioni di italiani emigranti. L’ambito di studio di Scritture Migranti però non riguarda le migrazioni in letteratura, ma la letteratura delle migrazioni.
Ci spieghi meglio. Qual è la differenza?
Il nostro lavoro non si concentra in generale sulla letteratura che parla di migrazioni, ma sui testi letterari scritti dai migranti. Persone che arrivano in Italia da luoghi anche lontanissimi, imparano l’italiano e iniziano ad utilizzarlo come strumento di espressione.
Da quando esiste questo tipo di letteratura nel nostro Paese?
In Italia, c’è un momento preciso: l’agosto del 1989, quando nei campi di pomodoro campani venne ucciso Jerry Masslo, un richiedente asilo sudafricano. Questo episodio di razzismo violento fece sì che il nostro Paese iniziasse a interessarsi alla presenza di queste persone. Tutta la società incominciò a interrogarsi e anche l’editoria e la letteratura iniziarono a dare una risposta, a colmare le lacune di quelle identità mancanti. Cominciarono così a uscire i libri. E’ una letteratura che nasce dal razzismo, dallo sfruttamento, dalla sottomissione, dal lavoro nero, dalla manodopera forzata. Esperienze che segnano e intorno alle quali si orientano gli scritti di questi autori.
Letteratura d’impegno sociale, quindi?
Quasi esclusivamente. Si tratta di scritti spesso crudi, che concedono poco al livello estetico, ma manifestano il desiderio di intervento sociale. Libri come “Io venditore di elefanti” di Pap Khouma, “La promessa di Humadi” di Moussa Ba, sono testi che mettono in luce il fenomeno dell’immigrazione e le difficoltà che esistono: i processi di integrazione carenti, gli intoppi delle prassi burocratiche, le lacune di protezione sociale ed economica, la criminalità, il caporalato. Tutto ciò di cui ancora discutiamo oggi era già là negli anni ’90, in questi testi.
Qual è la provenienza di questi scrittori?
La letteratura delle migrazioni in Italia riflette il succedersi dei flussi migratori. In una prima fase, senegalesi e maghrebini, poi albanesi, rumeni, sudamericani. Man mano si affacciano sulla scena letteraria nuove provenienze e nuove culture, così come è avvenuto sul mercato del lavoro e nella società tutta.
C’è chi teme che l’immigrazione possa dissolvere le radici del nostro Paese. Lei però ci parla di persone che, arrivate come raccoglitori di pomodori, hanno poi portato un contributo alla nostra cultura.
È così, persone arrivate come raccoglitori di pomodori sono poi diventati scrittori. Hanno trovato una professionalità qualificata, rispondente alle loro aspirazioni. Sul piano linguistico non si limitano a usare l’italiano, ma mettono in campo anche il dialetto. Spesso, lo fanno in modo ironico. Inoltre, a volte la lingua italiana è incrociata con sonorità e modi di costruire la frase, che provengono dalle lingue di provenienza. Le cosiddette madrelingue. È un incontro, insomma, uno scambio. Ciò contribuisce al rilancio della lingua, che è una materia viva, non un fossile.
Questo è una fonte di ricchezza per la lingua?
Sì, ricchezza ma anche apertura ed espansione. Si tratta di un’espansione dell’italiano, un ampliamento che arriva a includere componenti sociali che prima non c’erano e ora ci sono. Si guarda all’italiano da una prospettiva nuova. Risuonano nella nostra lingua altre lingue e altre culture. Dal 2000 in avanti poi assistiamo al fenomeno delle seconde generazioni: giovani nati qui, che parlano un italiano perfetto. È un’ulteriore fonte di ricchezza. Magari però hanno il “piccolo inciampo” di non essere riconosciuti italiani, a causa del percorso pieno di intoppi per richiedere la cittadinanza. Se gli chiedessimo un passaporto linguistico o letterario non avremmo difficoltà a definirli italiani.
Siamo ancora lontani dallo ius culturae, a quanto pare. Questo si riflette in ciò che scrivono?
Molto spesso. È al centro dei loro pensieri. Non è una fissazione, ma un problema irrisolto che si fa sentire. Sono autori che più che alla fantasia guardano al concreto e si fanno interpreti di una richiesta di cittadinanza e quindi di una integrazione ad ogni livello.
Da quando l’Università si è interessata a questa prospettiva letteraria?
Per quasi 15 anni siamo stati pochi in Italia a studiare queste cose. Poi c’è stato un momento di scoperta, dove erano sempre più numerosi coloro che si accostavano a questi temi. Ora l’attenzione è scemata. Direi un atteggiamento altalenante, un po’ superficiale, da parte del mondo accademico. Si potrebbe fare molto di più.
Lei però tiene lezioni in Università. Gli studenti manifestano interesse?
Gli studenti sì, anche troppo, devo dire (ride)! Sa quanti mi chiedono la tesi? Guardi, ho finito un momento fa di fare lezione, una classe di una sessantina di persone e devo dire che sì, c’è grandissimo entusiasmo.
Cosa li entusiasma?
Il fatto che finalmente possono sentire la voce diretta dei migranti, che dicono quello che sentono e che provano. È una prospettiva che ti permette di immedesimarti nell’altro, di conoscere da una diversa angolatura questioni di cui senti parlare tutti i giorni. Il punto è che nessuno di noi prova sulla sua pelle cosa significa essere vittima di razzismo o lavorare in un campo di pomodori. La letteratura dà voce a queste esperienze.
Intervista a cura di Lorenzo Benassi Roversi